La colonna sonora
della tarda età del capitalismo e della globalizzazione è rappresentata da
quello che io chiamo “pop musicalistico”. Con questo termine cerco di fare una
sintesi tra la parola “pop” – che da un cinquantennio circa si è imposta a vari livelli nel mondo
dell’arte – e “musical”, intendendo con questo proprio gli spettacoli di canto,
ballo e recitazione in voga a Broadway. Il motivo è semplice: da una parte
abbiamo le tipiche caratteristiche della musica pop – la produzione di album,
la promozione in televisioni e radio, le tournèe – dall’altra elementi “rubati”
proprio al musical, nella fattispecie le pompose (e costosissime) coreografie
che accompagnano le esibizioni delle pop star, che offrono al pubblico uno
spettacolo completo di danze, scenografie teatrali e performance canore. Il pop
musicalistico è seguito da una gigantesca macchina mediatica, che alimenta la
venerazione globale del pubblico nei confronti degli artisti. Storicamente, i
primi esperimenti di successo di pop musicalistico hanno riguardato Michael
Jackson – forse il più talentuoso tra gli artisti di quel filone, non a caso
rinominato “king of pop” – e, sul versante femminile, Madonna. Con loro e
attraverso di loro, a partire dai primi anni ’80, si è sviluppato il “culto” della popstar canterina e ballerina,
che girava il pianeta infaticabilmente accompagnata da un enorme carrozzone di
ballerini, scenografi, tecnici e “personal trainers” per le più svariate
necessità.
Il genere ha subito un lieve
rallentamento nel corso degli anni ’90, decennio molto più problematico del
precedente sia sul piano economico (diverse gravi crisi macroregionali misero in
discussione il neoliberismo allegro degli yuppies) che sociale (tra i vari elementi di
disagio sociale, l’AIDS-fobia, specie a inizio decennio, e la disoccupazione
galoppante in molte aree ex industriali che faticavano a riconvertirsi). Gli
anni ’90, insomma, hanno rappresentato un’epoca meno “frizzi e lazzi”, meno
ludica e spensierata del decennio precedente. Nella musica popolare gli anni ’90
hanno visto il sorprendente successo di massa di generi che nell’epoca precedente erano “resistenti”, come il punk, il metal, il grunge. Genere
quest’ultimo che ancora oggi si associa alla cosiddetta “generazione X”, che la
cara vecchia Wikipedia definisce così: Generazione X è una
locuzione diffusa nel mondo occidentale per descrivere tutti coloro che sono
nati approssimativamente tra il 1965 e il 1980 […] Storicamente la Generazione X è inquadrata nel periodo di
transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la
fine della guerra fredda. Un'altra caratteristica prevalente nell'individuare
gli appartenenti a questa generazione è la riduzione delle nascite tra il 1964
e il 1979, conseguente al Baby Boom tra il 1946 e il 1963.
Una
"generazione invisibile", piccola, inserita nella ricostruzione
attuata dai figli del Baby Boom, che gli valse il titolo di "X", a
rappresentare la mancanza di un'identità sociale definita. Una volta giovani
adulti, la Generazione X raccolse l'attenzione dei media tra la fine degli anni
Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, guadagnando la reputazione stereotipata
di apatici, cinici, senza valori o affetti. Una volta diventati invece
adulti di mezza età, gli esponenti di punta della Generazione X si sono spesso
imposti, assieme ai “baby boomers” più giovani, come uomini d’affari di
successo nel campo delle tecnologie informatiche e di Internet, ma anche, in
alcuni casi, nel settore finanziario. Proprio la rinascita, a partire dagli
ultimi anni ’90, dell’economia “creativa” finanzo-centrica – che alcuni autori
chiamano finanzcapitalismo – anche grazie allo sviluppo degli scambi telematici
e all’adozione a livello globale delle dottrine neoliberali già in uso dagli
anni ’80 nel mondo anglosassone, fece da volano a una “restaurazione” della
società frivola e vanesia della decade ’80-’90, in cui il pop musicalistico
tornava prepotentemente alla ribalta come espressione popolare più forte e
verace. Alla base, il solito meccanismo: aumento costante su scala globale dei
consumi = profitti sempre più alti per i potentati capitalisti.
L’aumento dei
consumi era possibile attraverso l’appiattimento agli standard occidentali di
desideri e necessità di tutte le popolazioni mondiali. Alcune formidabili sacche
di resistenza si erano andate a formare in certe zone del Medio Oriente, ma nel
complesso il mondo si era piegato, e sembrava almeno in maniera definitiva, alla ferrea
volontà espansionistica mercantile dell’Occidente. Il pop musicalistico, fido servitore del
capitalismo globale, ha scardinato l’immaginario delle giovani generazioni di
ogni angolo del mondo, attraverso spesso un messaggio misto musical-visivo di
forte impatto.
Diverse popstar hanno origini afro-americane, il che, ovviamente
unito al bell’aspetto, le rende appetibili per una vasta fetta di mercato
mondiale “emergente”: gli uomini le desiderano e le ragazze le seguono per copiare il loro look (e alimentare a loro volta il mercato dei prodotti di bellezza e dell'abbigliamento).
Altre starlette si avvalgono comunque della collaborazione di
sedicenti rapper, nella stragrande maggioranza dei casi a loro volta
afro-americani e testimonial di uno stile di vita in qualche misura funzionale
ai quartieri-ghetto ultrapopolari delle metropoli statunitensi, triste modello
urbanistico che ahinoi si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo
con l’aumentare delle disparità tra l’1% di popolazione ricca e influente e il
99% rappresentato dalla classe media “in via di inpoverimento” e dalle
classi popolari post-proletarie. Sul piano strettamente musicale, il pop
musicalistico è caratterizzato da ritmi ballabili in 4/4 (necessari alla
produzione delle coreografie) e melodie semplici ma necessariamente “catchy”
(orecchiabili), spesso influenzate dalla black music americana degli anni
‘60/70 che è però stata spogliata delle sue strutture di arrangiamento più complesse e ridotta a mera
fonte di ispirazione per ritornelli “da stadio” e “miagolii“ suadenti da parte
delle affascinanti interpreti del pop musicalistico.
Negli ultimi dieci anni,
il pop musicalistico ha anche fornito una solida stampella stilistica per la
creazione di “talent show” destinati ad alimentare il mercato delle pubblicità
televisive e la “fabbrica dei sogni” di svariate migliaia di cittadini giovani,
che sperano di ottenere un posto – di qualsiasi tipo – nel rutilante e
scintillante mondo dello spettacolo per fuggire dalla gabbia del mondo senza
prospettive delineato dal rapido declino del finanzcapitalismo e più in
generale di questa fase della modernità. I talent show prosperano, i loro
vincitori – si pensi ai casi italiani di Marco Carta ed Emma Marrone – riescono anche a
ritagliarsi davvero quello spazio di successo personale tanto bramato, togliendosi varie
soddisfazioni.
Ciò non si verifica, naturalmente, per
migliaia di altri casi, ma sarebbe troppo pretendere di affrontare anche
questo argomento in questo testo. Resta più che altro da chiedersi cosa resterà
del pop musicalistico e del suo indotto (compresi i talent show) quando il
baraccone del mondo contemporaneo si sfracellerà definitivamente al suolo. Come
vedranno i posteri il mondo delle Lady Gaga, delle Beyoncè, della Rihanna? Lo
sapranno associare al vuoto pneumatico nel mondo della cultura assoggettata ai
profitti del mercato che contraddistingue quest’ultimo trentennio? Come
valuteranno il fiorire dei “talent” nel mondo a zero prospettiva dei ventenni
dei primi due decenni del Duemila?
Ma soprattutto, sapremo disintossicarci dalle sculettanti e
ammiccanti creature dell’industria musicale, portavoce spesso non del tutto consapevoli del
materialismo liberista usa e getta e del consumismo più ottuso?