martedì 29 maggio 2012

Le ancelle sculettanti del finanzcapitalismo

La colonna sonora della tarda età del capitalismo e della globalizzazione è rappresentata da quello che io chiamo “pop musicalistico”. Con questo termine cerco di fare una sintesi tra la parola “pop” – che da un cinquantennio circa  si è imposta a vari livelli nel mondo dell’arte – e “musical”, intendendo con questo proprio gli spettacoli di canto, ballo e recitazione in voga a Broadway. Il motivo è semplice: da una parte abbiamo le tipiche caratteristiche della musica pop – la produzione di album, la promozione in televisioni e radio, le tournèe – dall’altra elementi “rubati” proprio al musical, nella fattispecie le pompose (e costosissime) coreografie che accompagnano le esibizioni delle pop star, che offrono al pubblico uno spettacolo completo di danze, scenografie teatrali e performance canore. Il pop musicalistico è seguito da una gigantesca macchina mediatica, che alimenta la venerazione globale del pubblico nei confronti degli artisti. Storicamente, i primi esperimenti di successo di pop musicalistico hanno riguardato Michael Jackson – forse il più talentuoso tra gli artisti di quel filone, non a caso rinominato “king of pop” – e, sul versante femminile, Madonna. Con loro e attraverso di loro, a partire dai primi anni ’80,  si è sviluppato il “culto” della popstar canterina e ballerina, che girava il pianeta infaticabilmente accompagnata da un enorme carrozzone di ballerini, scenografi, tecnici e “personal trainers” per le più svariate necessità. 
Il genere ha subito un lieve rallentamento nel corso degli anni ’90, decennio molto più problematico del precedente sia sul piano economico (diverse gravi crisi macroregionali misero in discussione il neoliberismo allegro degli yuppies) che sociale (tra i vari elementi di disagio sociale, l’AIDS-fobia, specie a inizio decennio, e la disoccupazione galoppante in molte aree ex industriali che faticavano a riconvertirsi). Gli anni ’90, insomma, hanno rappresentato un’epoca meno “frizzi e lazzi”, meno ludica e spensierata del decennio precedente. Nella musica popolare gli anni ’90 hanno visto il sorprendente successo di massa di generi che nell’epoca precedente erano “resistenti”, come il punk, il metal, il grunge. Genere quest’ultimo che ancora oggi si associa alla cosiddetta “generazione X”, che la cara vecchia Wikipedia definisce così: Generazione X è una locuzione diffusa nel mondo occidentale per descrivere tutti coloro che sono nati approssimativamente tra il 1965 e il 1980 […]  Storicamente la Generazione X è inquadrata nel periodo di transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Un'altra caratteristica prevalente nell'individuare gli appartenenti a questa generazione è la riduzione delle nascite tra il 1964 e il 1979, conseguente al Baby Boom tra il 1946 e il 1963. 
Una "generazione invisibile", piccola, inserita nella ricostruzione attuata dai figli del Baby Boom, che gli valse il titolo di "X", a rappresentare la mancanza di un'identità sociale definita. Una volta giovani adulti, la Generazione X raccolse l'attenzione dei media tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, guadagnando la reputazione stereotipata di apatici, cinici, senza valori o affetti. Una volta diventati invece adulti di mezza età, gli esponenti di punta della Generazione X si sono spesso imposti, assieme ai “baby boomers” più giovani, come uomini d’affari di successo nel campo delle tecnologie informatiche e di Internet, ma anche, in alcuni casi, nel settore finanziario. Proprio la rinascita, a partire dagli ultimi anni ’90, dell’economia “creativa” finanzo-centrica – che alcuni autori chiamano finanzcapitalismo – anche grazie allo sviluppo degli scambi telematici e all’adozione a livello globale delle dottrine neoliberali già in uso dagli anni ’80 nel mondo anglosassone, fece da volano a una “restaurazione” della società frivola e vanesia della decade ’80-’90, in cui il pop musicalistico tornava prepotentemente alla ribalta come espressione popolare più forte e verace. Alla base, il solito meccanismo: aumento costante su scala globale dei consumi = profitti sempre più alti per i potentati capitalisti. 
L’aumento dei consumi era possibile attraverso l’appiattimento agli standard occidentali di desideri e necessità di tutte le popolazioni mondiali. Alcune formidabili sacche di resistenza si erano andate a formare in certe zone del Medio Oriente, ma nel complesso il mondo si era piegato, e sembrava almeno in maniera definitiva, alla ferrea volontà espansionistica mercantile dell’Occidente. Il pop musicalistico, fido servitore del capitalismo globale, ha scardinato l’immaginario delle giovani generazioni di ogni angolo del mondo, attraverso spesso un messaggio misto musical-visivo di forte impatto. 
Diverse popstar hanno origini afro-americane, il che, ovviamente unito al bell’aspetto, le rende appetibili per una vasta fetta di mercato mondiale “emergente”: gli uomini le desiderano e le ragazze le seguono per copiare il loro look (e alimentare a loro volta il mercato dei prodotti di bellezza e dell'abbigliamento).
Altre starlette si avvalgono comunque della collaborazione di sedicenti rapper, nella stragrande maggioranza dei casi a loro volta afro-americani e testimonial di uno stile di vita in qualche misura funzionale ai quartieri-ghetto ultrapopolari delle metropoli statunitensi, triste modello urbanistico che ahinoi si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo con l’aumentare delle disparità tra l’1% di popolazione ricca e influente e il 99% rappresentato dalla classe media “in via di inpoverimento” e dalle classi popolari post-proletarie. Sul piano strettamente musicale, il pop musicalistico è caratterizzato da ritmi ballabili in 4/4 (necessari alla produzione delle coreografie) e melodie semplici ma necessariamente “catchy” (orecchiabili), spesso influenzate dalla black music americana degli anni ‘60/70 che è però stata spogliata delle sue strutture di arrangiamento più complesse e ridotta a mera fonte di ispirazione per ritornelli “da stadio” e “miagolii“ suadenti da parte delle affascinanti interpreti del pop musicalistico. 
Negli ultimi dieci anni, il pop musicalistico ha anche fornito una solida stampella stilistica per la creazione di “talent show” destinati ad alimentare il mercato delle pubblicità televisive e la “fabbrica dei sogni” di svariate migliaia di cittadini giovani, che sperano di ottenere un posto – di qualsiasi tipo – nel rutilante e scintillante mondo dello spettacolo per fuggire dalla gabbia del mondo senza prospettive delineato dal rapido declino del finanzcapitalismo e più in generale di questa fase della modernità. I talent show prosperano, i loro vincitori – si pensi ai casi italiani di Marco Carta ed Emma Marrone – riescono anche a ritagliarsi davvero quello spazio di successo personale tanto bramato, togliendosi varie soddisfazioni. 
Ciò non si verifica, naturalmente, per  migliaia di altri casi, ma sarebbe troppo pretendere di affrontare anche questo argomento in questo testo. Resta più che altro da chiedersi cosa resterà del pop musicalistico e del suo indotto (compresi i talent show) quando il baraccone del mondo contemporaneo si sfracellerà definitivamente al suolo. Come vedranno i posteri il mondo delle Lady Gaga, delle Beyoncè, della Rihanna? Lo sapranno associare al vuoto pneumatico nel mondo della cultura assoggettata ai profitti del mercato che contraddistingue quest’ultimo trentennio? Come valuteranno il fiorire dei “talent” nel mondo a zero prospettiva dei ventenni dei primi due decenni del Duemila? 
Ma soprattutto, sapremo disintossicarci dalle sculettanti e ammiccanti creature dell’industria musicale, portavoce spesso non del tutto consapevoli del materialismo liberista usa e getta e del consumismo più ottuso?