mercoledì 22 febbraio 2012

Ma la Decrescita è reazionaria?

La teoria della Decrescita, a forza di venir dibattuta in convegni, siti internet, articoli di riviste “alternative” e saggi cartacei, sta cominciando a far capolino anche nei media mainstream.
In Italia abbiamo assistito, a partire all’incirca dalla scorsa primavera, a un aumentato interesse nei confronti delle istanze decresciste, che ha portato anche all’apparizione del “vate” della Decrescita, Serge Latouche, in alcuni talk show molto seguiti a livello nazionale[1].
Come sempre accade, più una teoria viene dibattuta e conosciuta da un numero sempre maggiore di persone, più aumenta, purtroppo, la confusione, e non mancano le critiche cieche, dovute al cozzare violento tra la propria impostazione ideologica e la “novità” che questa impostazione si sente in diritto di contestare. Così non c’è da sorprendersi se la Decrescita si trova a fare i conti con critiche provenienti tanto dalla Destra liberista e mercantilista, quanto dalla Sinistra socialdemocratica e da quella neo (o post?) marxista.
La Decrescita, secondo tutte (o quasi) le campane della politica mainstream e di buona parte della sinistra radicale è – o sarebbe – un’ideologia “reazionaria”, che si oppone ciecamente al “progresso” sulla base più di un disagio esistenziale nel rapportarsi con la modernità che per una valutazione intellettuale ben ragionata e strutturata.
Gli ortodossi del marxismo non escludono poi che le idee di Latouche possano portare alla formazione di un inquietante, e pericolosissimo, “eco-rossobrunismo”, considerato che alcuni personaggi della Nuova Destra europea non hanno nascosto il proprio sostegno alla Decrescita (un caso su tutti, quello dell’intellettuale francese De Benoist).
Ma quindi è vero ciò che strillano liberali, socialisti e neo(post?)marxisti? La Decrescita è una pericolosa dottrina oscurantista, reazionaria, nemica del progresso in nome di una visione delirante dell’ambientalismo e soggetta a infiltrazioni fascistoidi?
Innanzitutto, facciamo chiarezza sul termine “reazionario”.Dopo la rivoluzione francese del 1789 e l’esperienza napoleonica conclusasi nel 1815, l’aggettivo “reazionario” ha dipinto tutte quelle forze, politiche ed intellettuali, fedeli al sistema di valori dell’Ancien Regime e sostenitrici della Restaurazione voluta dalla Santa Alleanza. L’assoluta negatività del termine “reazionario” fu riaffermata in seguito dalle formazioni socialiste e comuniste che con questo aggettivo intesero bollare il sistema di valori borghese affermatosi proprio dopo la caduta definitiva dell’Ancien Regime. Sono due secoli, quindi, che il termine “reazionario” identifica l’oscurantismo, la nostalgia dell’oppressione elitaria e il rifiuto aprioristico del progresso: una schifezza totale, insomma. Ma siamo sicuri che debba essere sempre e per forza così?
Ci sono alcuni punti della teoria decrescista che possono apparire reazionari, in quanto fanno riferimento al recupero di aspetti della vita sociale pre-moderna, seppur rivisitati in chiave contemporanea. Prendiamo ad esempio la  formazione di comunità autonome: una volta usciti dalla spirale della mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza, la società andrà riorganizzata sulla base di comunità autonome (o semi-autonome), cioè capaci di prodursi la propria energia (attraverso l’uso delle rinnovabili) e di dotarsi di una certa autonomia alimentare (orti urbani, alimenti a “chilometro zero” ecc.). Un punto cardine di questo discorso è legato allo “spirito del dono”, cioè all’obbligo di donare – e ricevere – beni da altri membri della comunità, attraverso uno scambio continuo che consolida i rapporti tra gli individui, e talvolta li crea dal nulla.
 Latouche porta l’esempio dell’Africa, dove lo “spirito del dono” è ancora ben  presente e ha un impatto sociale superiore a quella del mercato. Si tratterebbe, quindi, di recuperare alcune caratteristiche delle comunità pre-moderne (la sussistenza economica e la semi-autonomia alimentare), e di rimettere in discussione la leadership del mercato nei rapporti di scambio tra individui così come immaginata a partire da Adam Smith. Il mondo dominato dai grandi centri commerciali, immensi luoghi anonimi dove avvengono le transazioni mercantili senza alcun tipo di rapporto umano e sociale, trionfo della solitudine consumista, è l’incubo dal quale i decrescisti vogliono fuggire per RISCOPRIRE la convivialità, la bellezza del rapporto umano e dello spirito di condivisione dei beni. Si tratta, in parte, di tornare indietro di un paio di secoli, pur con gli opportuni aggiustamenti dati dall’evoluzione tecnologica e sociale.
Si può però dire che la Decrescita, pur contenendo, come abbiamo visto, elementi che la avvicinano alla Reazione (intesa come processo di recupero e riscoperta di usi antecedenti alle rivoluzioni borghesi), sia comunque un insegnamento sostanzialmente rivoluzionario: il fine ultimo della Decrescita non è certo la riaffermazione di un sistema di valori aristocratico e anti-popolare, bensì la trasformazione della società in un consesso di individui liberi, il cui immaginario comune è stato “decolonizzato” dal predominio dell’economia e dei mercati sulla politica e sulla vita sociale.
La Decrescita si richiama ai valori della democrazia diretta, che implica un impegno pressoché costante dei membri della comunità nella gestione della stessa: tutto il contrario, insomma, di una Reazione di stampo liberticida.
Liberazione dai dogmi economicisti e del consumismo, riscoperta della convivialità e gestione diretta del potere, inteso non come forma di soggiogazione dell’altro ma piuttosto di condivisione delle decisioni pubbliche e delle responsabilità sulla vita comune. Con buona pace degli irriducibili della modernità, che paradossalmente, appoggiando le tecnocrazie e i governi "tecnici", finiscono col legittimare una sorta di revival dell'Ancien Regime in salsa finanziaria.

giovedì 2 febbraio 2012

A sostegno dei fratelli greci, vittime delle tecnocrazia

Davanti a una mensa dei poveri. Tessalonica, settembre 2011.
La cronaca delle ultime settimane riporta notizie terribili provenienti dalla Grecia: aumentano i casi di abbandono di minori negli asili, nelle scuole e nelle chiese, extrema ratio di famiglie disperate, impoverite al punto di non poter garantire né un presente né tanto meno un futuro ai propri figli.
 Viene in mente, leggendo queste storie, il tempo lontano in cui i trovatelli e i figli di ragazze-madri venivano abbandonati davanti ai portoni delle chiese e dei conventi; nell'Italia meridionale questa triste usanza, molto radicata nei secoli passati, ha portato all'origine dei cognomi Esposto ed Esposito. Nell'Europa del "patto sociale", travolta dalla crisi della finanza cannibale, questo dramma indicibile sta tornando a galla, con tutto il suo carico di sofferenza e disperazione.
Sul sito www.camminandoscalzi.it si legge un articolo, a firma Giovanni Paci, in cui è riportata la testimonianza angosciante di una donna che ha dovuto abbandonare la propria figlioletta all'asilo, costretta dall'incapacità di poterle garantire una vita dignitosa. “Anna, la mamma non ti verrà a prendere stasera. Non ho più soldi. Scusa. La tua mamma”.
Questa frase non identifica un caso isolato ma, sempre più, l'attualità in un Paese che, dall'avvento del tecnocrate Papademos, è uscito dalle prime pagine dei network e delle testate mainstream, con una rapidità che lascia quanto meno perplessi, se si pensa alla frequenza con la quale i nostri probi cronisti ci riportavano le notizie di scioperi, manifestazioni e agitazioni varie nel corso dell'amministrazione Papandreou, "trombato" dopo aver osato annunciare la proposta di un referendum popolare sul piano di salvataggio (sic!) di UE e FMI
La verità, oscurata dai media mainstream, è che i nostri fratelli greci stanno letteralmente morendo di fame: un greco su quattro vive sotto la soglia di povertà, secondo un rilievo del dicembre 2011 dell'Istituto Nazionale di Statistica Elstat.
Ad Atene, secondo la direttrice del brefotrofio locale Maria Iliopoulou, il numero di chi fruisce delle mense allestite dalla Chiesa ortodossa è aumentato durante l'autunno di ventimila unità.
E sono stati registrati anche ben 200 casi di denutrizione infantile - impensabile in un Paese del "primo mondo" - per l'impossibilità dei genitori di sfamare i propri bimbi.
Tutto questo mentre gli europei, ipnotizzati dagli incantatori di serpenti della finanza e dei media mainstream, plaudono convinti alle politiche di austerità imposte dalla troika UE-FMI e biasimano il popolo greco delle "cicale", dei "cattivi risparmiatori e pessimi investitori", come se fosse una responsabilità di Anna, o degli ospiti del brefotrofio, o dei neonati denutriti, il collasso di un sistema assurdo basato sull'irrazionalità dell'accumulazione infinita di debito, sulla sua manipolazione artificiale, fittizia, che colpisce ora gli anelli più deboli della catena ma che è destinato a propagarsi anche nei nuclei del sistema, nei suoi gangli principali.
Ci hanno insegnato che l'ideologia è morta, che oggi governano la tecnica, la ragione, la scienza.
Non è vero niente: siamo nelle mani di un'ideologia terribile, molto più raffinata di quelle novecentesche, che si chiama Neoliberismo. I Monti, i Papademos, le Merkel e gli Obama sono i terminali "popolari" di un sistema governato a livelli più alti, dagli uffici dei palazzi d'acciaio e vetro di New York, della City di Londra e di tutte le altre "capitali" dei diversi capitalismi che formano l'architettura globale neoliberale. L'ideologia che si traveste da governo tecnico e imparziale: un po' come il Diavolo che, nel famoso detto, ha convinto gli esseri umani della sua inesistenza per raggirarli meglio.  Intanto, per sostenere indefinitamente il sistema del debito e dell'irrazionale "crescita infinita", impossibile in un mondo dalle risorse finite, i nostri fratelli greci muoiono di fame e abbandonano, disperati, i loro figli. E noi, ciechi, applaudiamo i loro aguzzini, che presto, se non reagiremo, saranno anche i nostri.
 Prima capiremo, tutti, di vivere in un sistema fondamentalista, prima riusciremo a svegliarci e a liberarcene, per costruire una società nuova basata sui valori reali, concreti, tanto dell'economia quanto dei rapporti umani.
Una società dove la politica vera, la democrazia vera, diretta, vicina al popolo e alle sue esigenze reali, capace di ascoltare e di decidere per la difesa del bene comune, abbia il sopravvento sul governo della deriva tecnofinanziaria e della sua fondamentale irrazionalità disumana.