La teoria della Decrescita, a forza di venir dibattuta in convegni, siti internet, articoli di riviste “alternative” e saggi cartacei, sta cominciando a far capolino anche nei media mainstream.
In Italia abbiamo assistito, a partire all’incirca dalla scorsa primavera, a un aumentato interesse nei confronti delle istanze decresciste, che ha portato anche all’apparizione del “vate” della Decrescita, Serge Latouche, in alcuni talk show molto seguiti a livello nazionale[1].
Come sempre accade, più una teoria viene dibattuta e conosciuta da un numero sempre maggiore di persone, più aumenta, purtroppo, la confusione, e non mancano le critiche cieche, dovute al cozzare violento tra la propria impostazione ideologica e la “novità” che questa impostazione si sente in diritto di contestare. Così non c’è da sorprendersi se la Decrescita si trova a fare i conti con critiche provenienti tanto dalla Destra liberista e mercantilista, quanto dalla Sinistra socialdemocratica e da quella neo (o post?) marxista.
La Decrescita, secondo tutte (o quasi) le campane della politica mainstream e di buona parte della sinistra radicale è – o sarebbe – un’ideologia “reazionaria”, che si oppone ciecamente al “progresso” sulla base più di un disagio esistenziale nel rapportarsi con la modernità che per una valutazione intellettuale ben ragionata e strutturata.
Gli ortodossi del marxismo non escludono poi che le idee di Latouche possano portare alla formazione di un inquietante, e pericolosissimo, “eco-rossobrunismo”, considerato che alcuni personaggi della Nuova Destra europea non hanno nascosto il proprio sostegno alla Decrescita (un caso su tutti, quello dell’intellettuale francese De Benoist).
Ma quindi è vero ciò che strillano liberali, socialisti e neo(post?)marxisti? La Decrescita è una pericolosa dottrina oscurantista, reazionaria, nemica del progresso in nome di una visione delirante dell’ambientalismo e soggetta a infiltrazioni fascistoidi?
Innanzitutto, facciamo chiarezza sul termine “reazionario”.Dopo la rivoluzione francese del 1789 e l’esperienza napoleonica conclusasi nel 1815, l’aggettivo “reazionario” ha dipinto tutte quelle forze, politiche ed intellettuali, fedeli al sistema di valori dell’Ancien Regime e sostenitrici della Restaurazione voluta dalla Santa Alleanza. L’assoluta negatività del termine “reazionario” fu riaffermata in seguito dalle formazioni socialiste e comuniste che con questo aggettivo intesero bollare il sistema di valori borghese affermatosi proprio dopo la caduta definitiva dell’Ancien Regime. Sono due secoli, quindi, che il termine “reazionario” identifica l’oscurantismo, la nostalgia dell’oppressione elitaria e il rifiuto aprioristico del progresso: una schifezza totale, insomma. Ma siamo sicuri che debba essere sempre e per forza così?
Ci sono alcuni punti della teoria decrescista che possono apparire reazionari, in quanto fanno riferimento al recupero di aspetti della vita sociale pre-moderna, seppur rivisitati in chiave contemporanea. Prendiamo ad esempio la formazione di comunità autonome: una volta usciti dalla spirale della mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza, la società andrà riorganizzata sulla base di comunità autonome (o semi-autonome), cioè capaci di prodursi la propria energia (attraverso l’uso delle rinnovabili) e di dotarsi di una certa autonomia alimentare (orti urbani, alimenti a “chilometro zero” ecc.). Un punto cardine di questo discorso è legato allo “spirito del dono”, cioè all’obbligo di donare – e ricevere – beni da altri membri della comunità, attraverso uno scambio continuo che consolida i rapporti tra gli individui, e talvolta li crea dal nulla.
Latouche porta l’esempio dell’Africa, dove lo “spirito del dono” è ancora ben presente e ha un impatto sociale superiore a quella del mercato. Si tratterebbe, quindi, di recuperare alcune caratteristiche delle comunità pre-moderne (la sussistenza economica e la semi-autonomia alimentare), e di rimettere in discussione la leadership del mercato nei rapporti di scambio tra individui così come immaginata a partire da Adam Smith. Il mondo dominato dai grandi centri commerciali, immensi luoghi anonimi dove avvengono le transazioni mercantili senza alcun tipo di rapporto umano e sociale, trionfo della solitudine consumista, è l’incubo dal quale i decrescisti vogliono fuggire per RISCOPRIRE la convivialità, la bellezza del rapporto umano e dello spirito di condivisione dei beni. Si tratta, in parte, di tornare indietro di un paio di secoli, pur con gli opportuni aggiustamenti dati dall’evoluzione tecnologica e sociale.
Si può però dire che la Decrescita, pur contenendo, come abbiamo visto, elementi che la avvicinano alla Reazione (intesa come processo di recupero e riscoperta di usi antecedenti alle rivoluzioni borghesi), sia comunque un insegnamento sostanzialmente rivoluzionario: il fine ultimo della Decrescita non è certo la riaffermazione di un sistema di valori aristocratico e anti-popolare, bensì la trasformazione della società in un consesso di individui liberi, il cui immaginario comune è stato “decolonizzato” dal predominio dell’economia e dei mercati sulla politica e sulla vita sociale.
La Decrescita si richiama ai valori della democrazia diretta, che implica un impegno pressoché costante dei membri della comunità nella gestione della stessa: tutto il contrario, insomma, di una Reazione di stampo liberticida.
Liberazione dai dogmi economicisti e del consumismo, riscoperta della convivialità e gestione diretta del potere, inteso non come forma di soggiogazione dell’altro ma piuttosto di condivisione delle decisioni pubbliche e delle responsabilità sulla vita comune. Con buona pace degli irriducibili della modernità, che paradossalmente, appoggiando le tecnocrazie e i governi "tecnici", finiscono col legittimare una sorta di revival dell'Ancien Regime in salsa finanziaria.