giovedì 15 novembre 2012

PSICOLOGIA DEL MANIFESTANTE. E DEL CELERINO.




Nel corso dello sciopero europeo indetto da numerose sigle sindacali continentali per protestare contro le misure d’austerity imposte dall’UE – si è manifestato da Londra ad Atene, da Berlino a Lisbona – si sono verificati numerosi atti di violenza che, al di là della “vulgata” comune e dei mantra dei politici (che suonano ovunque come:”legittimo manifestare pacificamente ma ogni atto di violenza va condannato”), segnalano quanto sia alta la febbre sociale nelle popolazioni del vecchio mondo. Gli studenti, in quanto in primo luogo giovani, hanno ovviamente espresso i maggiori ardori, ma al di là di una questione pressoché fisiologica, va registrato un aspetto psicologico non secondario che accomuna una vasta fascia di popolazione, che va suppergiù dai 15 ai 35 anni:  la totale incertezza relativa al proprio futuro.
L’ultima generazione ad aver affrontato una crisi di prospettive di questa ampiezza è stata quella che, tra gli anni ’30 e ’40, è stata schiacciata dalla Grande Depressione prima e dalla Seconda Guerra Mondiale poi (speriamo che questo tetro ricorso storico non si verifichi nuovamente).
 Il “trentennio glorioso” post-bellico e il successivo trentennio (o poco meno) finanzcapitalistico – in mezzo, i vanagloriosi anni ’80 con la loro onda lunga socio-culturale – avevano fornito ai propri giovani un percorso di futuro facilmente percorribile in base alle proprie inclinazioni, possibilità e personalità. I gruppi di protesta, in quel periodo storico, assumevano proporzioni variabili, anche di notevole entità, ma non riuscivano mai a rappresentare tout court la gioventù alla quale si rivolgevano, vuoi per le politiche di piena occupazione dell’epoca keynesiana, vuoi per la brillante propaganda liberista del periodo thatcheriano-raeganiano, rafforzata da una fase di crescita ancora presente seppur inferiore a quella del trentennio precedente.
In questa fase calante del capitalismo, con tutti i suoi chiari di luna, la gioventù è indubbiamente tra i settori sociali più mal messi: la scuola è stata trasformata in un “centro di addestramento” – male in arnese – per futuri lavoratori precari, a progetto o anche autonomi dalle scarse possibilità di affermazione sociale. Il mercato del lavoro dal canto suo è stretto nella morsa dell’austerità e della recessione, e presta il fianco a nugoli di profittatori che offrono contratti semi-schiavistici anche a laureati in discipline un tempo ritenute di primario interesse nazionale (si pensi ai molti giovani ingegneri o ricercatori pagati una miseria con contratti debolissimi per svolgere spesso i lavori più gravosi all’interno di aziende, laboratori e grandi studi professionali). La disoccupazione giovanile, peraltro, ha toccato livelli esorbitanti: in Italia si attesta attualmente al 35%, contro il 18,6% del 2007. L’aspetto ancor più preoccupante è che di questi giovani disoccupati circa un terzo si è ormai rassegnato a non trovare uno straccio di lavoro stabile, e quindi, di riflesso, a vivere una vita di espedienti, o di mansioni occasionali ad ogni condizione salariale.
Oltre a ciò, i ragazzi oggi subiscono l’assalto dei media a loro indirizzati, che esasperano la vanagloria materialista degli anni ’80 portandola a livelli parossistici e grotteschi, se confrontati con il reale stato delle cose negli anni ’10 del XXI secolo.
 I video musicali delle stelle dell’hip hop, del pop o dell’R&B (da non confondere con l’identico acronimo del rythm and blues di metà ‘900) propagandano un mondo di rapporti superficiali, esibizionismo e ostentazione del lusso, che fa da contraltare al panorama desolante che si apre di fronte ai nostri giovani, offrendo loro una fuga dalla realtà (interessata, considerato che i produttori di questa musica commerciale sono grandi gruppi transnazionali detti “major”) e un modello di vita conforme alle necessità consumistiche del sistema capitalistico. Offre loro, inoltre, l’aridità e la superficialità come valori, risultando in questo senso ancor più dannosa e pericolosa nel lungo periodo. L’aspetto positivo è che questo sistema massmediatico giovanilista da “incantatori di serpenti” ha mostrato il fianco proprio ieri, nelle enormi e numerosissime manifestazioni di piazza svoltesi in tutta Europa. Segno che l’umanità non è ancora così schiava delle chincaglierie massmediatiche globali come siamo portati a credere, e che di fronte a un futuro fatto di lavori occasionali, disoccupazione cronica e incertezza fino all’età matura, la gioventù è ancora in grado di svegliarsi ed alzare la testa. In questo senso, sarà importante vedere cosa accadrà nelle prossime occasioni, considerato che lo sciopero europeo è stato un successo enorme e forse inatteso, e verrà sicuramente replicato.
Il giorno dopo, non mancano anche le denunce – spesso supportate da documenti video e fotografici – delle violenze gratuite commesse dai cosiddetti “celerini” nei confronti dei manifestanti, sia in Italia che in Europa (soprattutto in Spagna). Se nel caso degli studenti abbiamo la reazione, a volte rabbiosa, nei confronti di un futuro che appare sempre più nero ed incerto, dall’altra parte abbiamo un mondo più enigmatico, celato anche metaforicamente dietro caschi e tenute anti-sommossa.
Chi scrive aveva un nonno carabiniere che mai si sarebbe prestato a picchiare ragazzini e padri di famiglia, per usare le parole di Beppe Grillo, nel corso di una manifestazione simile.
E non sto parlando di un sindacalista “rosso”, ma di una persona che amava il suo lavoro e si metteva a servizio della cittadinanza. Penso altresì che persone come lui ce ne siano ancora molte, nelle nostre forze dell’ordine.
C’è però una componente che deve possedere un profilo psicologico molto più particolare.
I tagli alla spesa subiti dalle forze dell’ordine nel corso degli anni sono noti a tutti, così come l’esiguità degli stipendi di poliziotti, carabinieri e guardie di finanza, specie se rapportata alla pericolosità del loro mestiere. Nonostante tutto, e nonostante nelle piazze si trovi ormai di tutto, non solo militanti anarchici o marxisti, ma anche casalinghe, impiegati, pensionati, ragazzini delle scuole medie inferiori, i cosiddetti “celerini” non fanno una piega e si distinguono spesso e volentieri per la loro brutalità. In un caso simile possono esserci ben poche spiegazioni: la prima, è che si tratti di persone che amano la violenza, o che comunque possiedano una vena di sadismo che “esplode” nei momenti di maggiore stress (durante le cariche, ad esempio).
L’altra spiegazione è che abbiano un culto maniacale dell’ordine costituito, che confermerebbe il pensiero comune secondo il quale i celerini sarebbero tutti simpatizzanti (o militanti) dell’estrema destra. Questo però fa a pugni (mai modo di dire si rivelò più azzeccato…) con i fatti di cronaca di ieri, che registrano tafferugli tra forze dell’ordine e militanti di Casapound, gli autoproclamatisi “fascisti del Terzo Millennio”. O esiste un’aperta ostilità tra fascisti classici (paleo-fascisti?) e quelli del terzo millennio, oppure la maniacalità verso l’ordine costituito non è dipendente, almeno in modo diretto, da un riconoscersi nell’ideologia fascista. E’ più probabilmente uno strizzare l’occhio al conservatorismo radicale, che impone, quasi compulsivamente, la difesa ad ogni costo del sistema così com’è, a prescindere da chi effettivamente si trovi al potere.
Tanto da divenire di fatto patologica, dal momento che va contro i loro stessi interessi di dipendenti pubblici, gravemente penalizzati dai tagli compiuti da questo e dagli altri governi. Fa bene Grillo ad appellarsi alle forze di polizia, chiedendo loro di unirsi alle proteste e non di ostacolarle: la speranza, in tal senso, è che la parte “sana” delle forze dell’ordine, riconosciuta la validità di contenuti di chi chiede più garanzie per sé e per i propri cari, a dispetto del caos organizzato dell’ultraliberismo, prenda le distanze dai difensori del sistema “ad ogni costo”, e prenda una posizione chiara e forte. Questo potrebbe essere l’inizio di una vera e propria Rivoluzione – i moti di piazza hanno quasi sempre bisogno di un “avvallo” di almeno parte dei militari e delle forze dell’ordine per potersi concretizzare – che prima ancora che istituzionale dovrà essere culturale.
Perché se oggi ci troviamo di fronte ad un tunnel buio, una ragione c’è ed è conseguenza diretta del Pensiero Unico, della sua soffocante tirannia psichica.

venerdì 28 settembre 2012

Liberalismo atto finale







Il mondo contemporaneo è dominato da una sola ideologia (con le sue varie ramificazioni interne): il Liberalismo. Già trionfatore nella seconda metà del XIX secolo nella sua lotta ultradecennale contro l’assolutismo monarchico, si è imposto a fine ‘900 anche contro il Comunismo (triennio 1989-’91, crollo del “socialismo reale” nell’Europa dell’Est e sfaldamento dell’URSS) e, vista la penuria di rivali attendibili, ha portato alcuni a considerare la Storia ormai finita, “ammazzata” bonariamente dal Liberalismo e dalle sue strutture. In verità il Liberalismo, di cui vanno sottolineati i meriti nell’aver emancipato l’uomo dalle rigide gerarchie alle quali era costretto nella società organica, mostra criticità notevoli in ogni settore del vivere umano: società, economia, ambiente, politica. L’attuale profondissima crisi economica globale, con il suo strascico di miserie umane assortite, sta rimettendo in discussione tutti i cardini dell’ideologia dominante, rendendo il futuro un posto molto meno scontato, almeno ideologicamente parlando, di quanto si potesse prevedere fino a pochi anni fa. Cercheremo di fare una sintesi per sommi capi delle varie criticità.
1)      Ambiente. Liberalismo fa rima con Industrializzazione: man mano che cresceva la ricchezza e l’influenza sociale della borghesia imprenditoriale (e commerciale) ottocentesca, cresceva anche il potere delle “fazioni” politiche liberali. Le rivoluzioni borghesi di metà ‘800 che uccisero  la Restaurazione post-napoleonica dell’Ancien Regime, probabilmente non avrebbero mai avuto successo se a monte non ci fosse stata una classe sociale la cui influenza rivaleggiava ormai con quella dell’eterna aristocrazia europea. Il processo di industrializzazione, come tutti sanno, non ha avuto un costo insignificante per gli equilibri ambientali. L’utilizzo massiccio di combustibili fossili, la mancanza, per molti decenni, di regole certe sui limiti di emissioni ed immissioni, il progresso della chimica industriale con la produzione di nuovi composti molto utili al “progresso” ma disastrosi se rilasciati nell’ambiente naturale, la pesca in quantità mai viste di specie ittiche e la fertilizzazione dei campi con sostanze chimiche che hanno devastato gli equilibri della terra coltivabile, sono fenomeni sotto gli occhi di tutti. E’ stato – ed è tuttora, specie in molte aree del Pianeta – il prezzo da pagare per lo sviluppo di una forte economia industriale. Ma oggi ci ritroviamo con sempre meno aree destinabili a un’agricoltura estensiva, con molte specie ittiche un tempo abbondanti ridotte quasi all’estinzione nel giro di due secoli, e con una presenza inquietante di sostanze inquinanti e potenzialmente nocive per l’uomo nell’aria e nell’ambiente. Se a ciò uniamo i disastri che accadono periodicamente – esplosioni di centrali nucleari, incidenti sulle piattaforme petrolifere o sulle navi petroliere – ci rendiamo conto immediatamente, anche senza statistiche o rapporti, che il conto presentato dall’economia moderna al nostro Pianeta è davvero tanto, troppo salato per non lasciare strascichi dalle potenzialità devastanti per la vita dell’uomo e delle altre specie nei secoli a venire.
2)      Società. Il Liberalismo, figlio primogenito dell’Illuminismo (il suo fratellino minore, nel senso di più giovane, è il Socialismo d’ispirazione marxista), si è subito contraddistinto per la lotta allo status quo nella società europea del XIX secolo, che vedeva una rigida suddivisione gerarchica in base al “sangue”, ossia al fatto di nascere in un determinato contesto sociale. Una gerarchizzazione dei rapporti sociali era davvero insopportabile per la rampante borghesia ottocentesca, che a suon di rivoluzioni e di lotte politico-culturali intensissime riuscì a cestinare la cosiddetta società organica a vantaggio della società liberale, in cui tutti – almeno sulla carta – nascevano liberi e uguali nei diritti e nei doveri di fronte alla legge. Alla legge, e non alla comunità come accadeva per consuetudine nella società organica: il diritto infatti sostituiva i rapporti “tradizionali” e legava i soggetti a rispettare determinate regole, condizione fatta salva la quale erano liberi di agire come meglio credevano per realizzare le proprie aspirazioni. Questo principio è ancora del tutto valido nel mondo contemporaneo e rappresenta, con ogni probabilità, il maggior e miglior risultato ottenuto dai “vecchi” liberali. Tuttavia, i liberali di ultima generazione non considerano ancora concluso questo processo e continuano a battersi contro ogni tipo di vincolo comunitario e di entità tradizionale presenti nel mondo. Nel calderone dei nemici “reazionari” hanno un ruolo di primo piano  le Nazioni, considerate dei residuati del passato alla pari delle grandi religioni organizzate, secondo grande nemico. La famiglia, naturalmente, è un altro soggetto sociale nel mirino degli ultraliberali, che la considerano un luogo di sopraffazione e soffocamento delle aspirazioni individuali e la contrastano in ogni modo. Ciò che questi fanatici non comprendono, è che la demolizione del retroterra culturale ed affettivo degli individui non li rende soggetti liberi e indipendenti, bensì degli sradicati resi fragili dall’assenza di legami profondi (e, si badi bene, non lo sta scrivendo un “papa boy”… anzi). L’uomo è un animale sociale che necessita di rapporti intensi e continui con i suoi simili. E’ impensabile che ciò possa regolamentarsi soltanto attraverso la freddezza dei codici civili e penali: è nella natura umana la ricerca di relazioni profonde con altri esseri con i quali trovare quell’empatia e complicità che permette all’essere umano di sentirsi parte di un contesto più grande, nel quale muoversi a pieno titolo. L’attuale sfaldamento dei rapporti sociali più profondi e sinceri, con tutto lo strascico di drammi personali e comunitari ai quali assistiamo quotidianamente – abuso di droga ed alcool, omicidi e violenze in famiglia, abbandono scolastico e criminalità giovanile – sono in diretta proporzione con la mentalità ultraliberale di “taglio” delle radici comunitarie.
3)      Politica. Il grande storico Eric Hobsbawm[1] sosteneva che la democrazia parlamentare – pilastro del Liberalismo politico – si regge fintanto che vengono verificate quattro condizioni di natura politica, economica e sociale. Una di queste è la stabilità del sistema economico: nel momento in cui la pancia dei cittadini comincia a borbottare, la democrazia parlamentare si mette a traballare, sotto la spinta dei dubbi popolari sulla sua reale efficacia. In effetti, il sistema liberaldemocratico non è certo un modello esemplare di rappresentanza: i partiti si fanno carico, almeno sulla carta, delle istanze popolari, ma nei fatti si dimostrano spesso e volentieri dei centri di potere a beneficio dei loro membri, come dimostrano i sempre più numerosi scandali che scoppiano qua e là nel mondo occidentale (si pensi ai casi recenti, tutti italiani, dello scandalo gestione fondi della Margherita, della Lega Nord e del PDL Lazio). Le farraginose attività parlamentari, poi, vengono percepite come lontane dalla volontà popolare, e cresce il numero di chi vede nella democrazia rappresentativa un modo scaltro di nascondere la supremazia delle grandi lobby sugli elettori. Negli USA, che non hanno mai conosciuto un sistema politico differente da quello liberaldemocratico, la maggioranza degli aventi diritto al voto è sfiduciata dal modello bipartitico (ormai dominante anche in gran parte del mondo), che premia due partiti finanziati dalle multinazionali e dalle banche d’affari la cui distanza dalle vere esigenze popolari è sempre stata piuttosto ampia, con “picchi” raggiunti negli ultimi quarant’anni (si pensi alle amministrazioni Nixon, Raegan e Bush jr., ma anche al salvataggio delle banche compiuto dal democratico  Obama nel 2008). In Europa, la rappresentanza popolare non garantisce la piena sovranità: gran parte delle leggi in discussione nei Parlamenti nazionali è in realtà elaborata sotto forma di direttiva in ambito comunitario, dove svolge un ruolo determinante la Commissione, organo non eletto composto da burocrati e politici “dismessi”. Anche in questo caso, monta la sfiducia popolare nei confronti delle istituzioni “democratiche”.
       4) Economia. Dallo scoppio della prima fase della crisi sistemica (crisi dei mutui subprime negli USA, 2007/08), in tanti abbiamo dovuto ingegnarci a studiare economia a tempo perso. Lo scoppio della crisi del debito in Europa, palesatosi dapprima in Grecia e poi in Spagna e Portogallo (tutti Paesi membri del poco invidiabile club dei PIIGS, con Italia e Irlanda), ha spostato drammaticamente termini e caratteristiche della crisi nel Vecchio Continente, con l’Euro stesso a serio rischio di collasso per la manifestazione drammatica delle sue contraddizioni intrinseche (l’Euro mette assieme Paesi con bilancia commerciale attiva, come la Germania, con altri a bilancia negativa, vedi proprio i PIIGS, perlopiù indebitati proprio con l’apparato economico tedesco). Siamo giunti alla fine dell’economia liberale? Dipende. Intanto, l’economia liberale ha tante scuole: c’è quella anglosassone, che è poi la scuola liberista classica (poco Stato, tanto mercato), c’è quella renano-scandinava, che prevede maggior presenza pubblica, c’è quella italiana che è influenzata dalla dottrina sociale della Chiesa, ecc. 
Dopo la fine dell’Impero Sovietico, caratteristiche tipiche del liberismo anglosassone sono entrate nella vita quotidiana dei lavoratori di molte altre aree (in Europa attraverso l’UE), si pensi a termini come “flessibilità” e “mobilità” riguardo la politica del lavoro. La finanza ha poi livellato molte differenze – che ora però riemergono, si pensi al conflitto “ideologico” tra capitalismo tedesco e anglosassone nell’affrontare la crisi – imponendosi come sistema principale per “fare soldi”. Oggi viviamo in una fase di grande incertezza, che può portare a una riaffermazione del liberismo come alla sua morte. Ciò che è chiaro, è che l’attuale crisi economica globale porterà a un finale traumatico in cui qualcuno uscirà necessariamente con le ossa rotte: un successo del liberismo, imposto dall’alto attraverso una Commissione europea potenziata che impone “misure speciali” agli Stati membri, sarebbe la sconfessione dei principi liberali socio-politici che hanno fatto accettare il sistema a centinaia di  milioni di persone nel corso dei decenni. Una diffusa rivolta popolare contro le misure “anti-crisi”, dal canto suo, potrebbe portare tanto a un regime democratico non liberale (democrazia diretta, proletaria o quant’altro) quanto a una riemersione di regimi totalitari para-fascisti (magari attraverso un colpo di stato militare). In ogni caso, per il Liberalismo come l’abbiamo conosciuto finora, saranno tempi grami.


[1] “Il secolo breve 1914-1991”, Eric J. Hobsbawm, ed. BUR




martedì 10 luglio 2012

La foglia di fico


Infuria la crisi, e con essa speranze, tragedie e improbabili soluzioni da parte dei padroni del vapore.
 In tanti sperano di sentirsi dire dai parrucconi del governo "la crisi è finita, andate in pace" ma non c'è fine per questa crisi, e probabilmente essa non porterà pace, ma tutto il contrario: già si alzano i venti di guerra in Medio Oriente, e si sa come vanno queste cose in tempo di crisi: basta una conoscenza superficiale della storia del secolo scorso per trarre le conseguenze del caso. La crisi, comunque, sta già comportando un fatto forse anche più rivoluzionario e sconvolgente di una guerra: il decadimento, lento ma apparentemente inarrestabile, del consumismo. Ossia, della più grande foglia di fico che l'umanità ricordi, posta a coprire le vergogne del Capitalismo, la cui lunghissima lista di crimini contro l'umanità, compiuti in ogni angolo del mondo (sì, anche a due passi da casa vostra), finora è rimasta ben nascosta dal patto malato che il capitale ha stretto con la società attraverso il consumismo di massa: io fingo di farvi felici inondandovi di robaccia - che grazie alla mia alleata pubblicità vi sembrerà indispensabile - mentre voi non mi rompete le palle, lasciandomi fare i miei porci comodi. Finora, con le masse il giochino ha funzionato: ma se la recessione continuerà, e le masse continueranno a ricevere messaggi contrastanti - compra il nuovo iphone! compra la nuova auto! cambia casa!  ma le tasche al contempo saranno sempre più vuote - la rivolta sociale sarà inevitabile, e, come dice l'economista Roubini, qualcuno comincerà ad essere impiccato nelle strade. 
Vi sembra uno scenario troppo catastrofico? Pensate al mondo di cinque anni fa e a quello attuale. 
Poi, sappiatemi dire...

martedì 29 maggio 2012

Le ancelle sculettanti del finanzcapitalismo

La colonna sonora della tarda età del capitalismo e della globalizzazione è rappresentata da quello che io chiamo “pop musicalistico”. Con questo termine cerco di fare una sintesi tra la parola “pop” – che da un cinquantennio circa  si è imposta a vari livelli nel mondo dell’arte – e “musical”, intendendo con questo proprio gli spettacoli di canto, ballo e recitazione in voga a Broadway. Il motivo è semplice: da una parte abbiamo le tipiche caratteristiche della musica pop – la produzione di album, la promozione in televisioni e radio, le tournèe – dall’altra elementi “rubati” proprio al musical, nella fattispecie le pompose (e costosissime) coreografie che accompagnano le esibizioni delle pop star, che offrono al pubblico uno spettacolo completo di danze, scenografie teatrali e performance canore. Il pop musicalistico è seguito da una gigantesca macchina mediatica, che alimenta la venerazione globale del pubblico nei confronti degli artisti. Storicamente, i primi esperimenti di successo di pop musicalistico hanno riguardato Michael Jackson – forse il più talentuoso tra gli artisti di quel filone, non a caso rinominato “king of pop” – e, sul versante femminile, Madonna. Con loro e attraverso di loro, a partire dai primi anni ’80,  si è sviluppato il “culto” della popstar canterina e ballerina, che girava il pianeta infaticabilmente accompagnata da un enorme carrozzone di ballerini, scenografi, tecnici e “personal trainers” per le più svariate necessità. 
Il genere ha subito un lieve rallentamento nel corso degli anni ’90, decennio molto più problematico del precedente sia sul piano economico (diverse gravi crisi macroregionali misero in discussione il neoliberismo allegro degli yuppies) che sociale (tra i vari elementi di disagio sociale, l’AIDS-fobia, specie a inizio decennio, e la disoccupazione galoppante in molte aree ex industriali che faticavano a riconvertirsi). Gli anni ’90, insomma, hanno rappresentato un’epoca meno “frizzi e lazzi”, meno ludica e spensierata del decennio precedente. Nella musica popolare gli anni ’90 hanno visto il sorprendente successo di massa di generi che nell’epoca precedente erano “resistenti”, come il punk, il metal, il grunge. Genere quest’ultimo che ancora oggi si associa alla cosiddetta “generazione X”, che la cara vecchia Wikipedia definisce così: Generazione X è una locuzione diffusa nel mondo occidentale per descrivere tutti coloro che sono nati approssimativamente tra il 1965 e il 1980 […]  Storicamente la Generazione X è inquadrata nel periodo di transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Un'altra caratteristica prevalente nell'individuare gli appartenenti a questa generazione è la riduzione delle nascite tra il 1964 e il 1979, conseguente al Baby Boom tra il 1946 e il 1963. 
Una "generazione invisibile", piccola, inserita nella ricostruzione attuata dai figli del Baby Boom, che gli valse il titolo di "X", a rappresentare la mancanza di un'identità sociale definita. Una volta giovani adulti, la Generazione X raccolse l'attenzione dei media tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, guadagnando la reputazione stereotipata di apatici, cinici, senza valori o affetti. Una volta diventati invece adulti di mezza età, gli esponenti di punta della Generazione X si sono spesso imposti, assieme ai “baby boomers” più giovani, come uomini d’affari di successo nel campo delle tecnologie informatiche e di Internet, ma anche, in alcuni casi, nel settore finanziario. Proprio la rinascita, a partire dagli ultimi anni ’90, dell’economia “creativa” finanzo-centrica – che alcuni autori chiamano finanzcapitalismo – anche grazie allo sviluppo degli scambi telematici e all’adozione a livello globale delle dottrine neoliberali già in uso dagli anni ’80 nel mondo anglosassone, fece da volano a una “restaurazione” della società frivola e vanesia della decade ’80-’90, in cui il pop musicalistico tornava prepotentemente alla ribalta come espressione popolare più forte e verace. Alla base, il solito meccanismo: aumento costante su scala globale dei consumi = profitti sempre più alti per i potentati capitalisti. 
L’aumento dei consumi era possibile attraverso l’appiattimento agli standard occidentali di desideri e necessità di tutte le popolazioni mondiali. Alcune formidabili sacche di resistenza si erano andate a formare in certe zone del Medio Oriente, ma nel complesso il mondo si era piegato, e sembrava almeno in maniera definitiva, alla ferrea volontà espansionistica mercantile dell’Occidente. Il pop musicalistico, fido servitore del capitalismo globale, ha scardinato l’immaginario delle giovani generazioni di ogni angolo del mondo, attraverso spesso un messaggio misto musical-visivo di forte impatto. 
Diverse popstar hanno origini afro-americane, il che, ovviamente unito al bell’aspetto, le rende appetibili per una vasta fetta di mercato mondiale “emergente”: gli uomini le desiderano e le ragazze le seguono per copiare il loro look (e alimentare a loro volta il mercato dei prodotti di bellezza e dell'abbigliamento).
Altre starlette si avvalgono comunque della collaborazione di sedicenti rapper, nella stragrande maggioranza dei casi a loro volta afro-americani e testimonial di uno stile di vita in qualche misura funzionale ai quartieri-ghetto ultrapopolari delle metropoli statunitensi, triste modello urbanistico che ahinoi si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo con l’aumentare delle disparità tra l’1% di popolazione ricca e influente e il 99% rappresentato dalla classe media “in via di inpoverimento” e dalle classi popolari post-proletarie. Sul piano strettamente musicale, il pop musicalistico è caratterizzato da ritmi ballabili in 4/4 (necessari alla produzione delle coreografie) e melodie semplici ma necessariamente “catchy” (orecchiabili), spesso influenzate dalla black music americana degli anni ‘60/70 che è però stata spogliata delle sue strutture di arrangiamento più complesse e ridotta a mera fonte di ispirazione per ritornelli “da stadio” e “miagolii“ suadenti da parte delle affascinanti interpreti del pop musicalistico. 
Negli ultimi dieci anni, il pop musicalistico ha anche fornito una solida stampella stilistica per la creazione di “talent show” destinati ad alimentare il mercato delle pubblicità televisive e la “fabbrica dei sogni” di svariate migliaia di cittadini giovani, che sperano di ottenere un posto – di qualsiasi tipo – nel rutilante e scintillante mondo dello spettacolo per fuggire dalla gabbia del mondo senza prospettive delineato dal rapido declino del finanzcapitalismo e più in generale di questa fase della modernità. I talent show prosperano, i loro vincitori – si pensi ai casi italiani di Marco Carta ed Emma Marrone – riescono anche a ritagliarsi davvero quello spazio di successo personale tanto bramato, togliendosi varie soddisfazioni. 
Ciò non si verifica, naturalmente, per  migliaia di altri casi, ma sarebbe troppo pretendere di affrontare anche questo argomento in questo testo. Resta più che altro da chiedersi cosa resterà del pop musicalistico e del suo indotto (compresi i talent show) quando il baraccone del mondo contemporaneo si sfracellerà definitivamente al suolo. Come vedranno i posteri il mondo delle Lady Gaga, delle Beyoncè, della Rihanna? Lo sapranno associare al vuoto pneumatico nel mondo della cultura assoggettata ai profitti del mercato che contraddistingue quest’ultimo trentennio? Come valuteranno il fiorire dei “talent” nel mondo a zero prospettiva dei ventenni dei primi due decenni del Duemila? 
Ma soprattutto, sapremo disintossicarci dalle sculettanti e ammiccanti creature dell’industria musicale, portavoce spesso non del tutto consapevoli del materialismo liberista usa e getta e del consumismo più ottuso?

venerdì 2 marzo 2012

Wakey wakey, eggs and bakey

Siamo alla fine di un’era? Da alcuni anni a questa parte – precisamente dal 2008, l’anno della crisi dei “mutui subprime” – il mondo è atterrito dalla prospettiva di “perdere tutto”: ossia di perdere il sistema di valori – e di potere – che si è costituito a partire dalla rivoluzione industriale degli anni ’50 del ‘700 in Gran Bretagna, per diffondersi poi negli ottant’anni successivi in tutta Europa e nelle nazioni nate dal colonialismo europeo dei secoli precedenti, prima di “invadere” la quasi totalità del mondo nel XX secolo.
Oggi viviamo, con ogni probabilità, il crepuscolo di un sistema che si può sintetizzare con schema piramidale: alla base, la grande massa di cittadini/consumatori, che col loro voto periodico alimentano il ceto a essi direttamente superiore (la classe politica), cinghia di trasmissione con il vertice della piramide, il capitale. Tutte le società occidentali si sono strutturate attorno a questi capisaldi, dall’Inghilterra settecentesca – prima monarchia costituzionale al mondo, segno della ricerca di un equilibrio tra il capitale emergente e il vecchio ordine aristocratico di origine medievale – agli Stati Uniti, prima società espressamente borghese nata sul pianeta Terra, per finire con la Rivoluzione Francese e i suoi “figli” ottocenteschi. Ci sono state esperienze novecentesche, rilevanti ma fallaci, che hanno cercato di ridiscutere radicalmente l’organizzazione politica, ideologica ed economica delle nazioni (i fascismi e i regimi comunisti), ma a dominare il mondo è, da oltre due secoli, il sistema della cosiddetta “democrazia liberale” sintetizzato per sommi capi qualche riga sopra. Oggi viviamo delle gravi crisi che, come già accennato, stanno mettendo drasticamente in discussione il sistema, che mostra il fianco a una serie di problematiche notevolissime. Vediamole.
1.      Il problema della “crescita”. Il sistema economico liberista è basato sulla crescita infinita, ossia sull’aumento costante dei profitti nel tempo. Si tratta di una caratteristica fondante, senza la quale il capitalismo come l’abbiamo conosciuto a partire dal tardo ‘700 si svuota di significato. Negli anni ’70 del secolo scorso è parso evidente che, di fronte al progressivo esaurimento delle risorse naturali, la crescita “vecchio stampo”, basata sull’apparato industriale, non sarebbe più stata possibile1: lo sviluppo del mondo finanziario venne in soccorso alla “crescita” creandola artificiosamente attraverso la proliferazione di strumenti come i derivati che, stando alla definizione canonica, sono[1]: ogni contratto o titolo il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di uno o più beni (quali, ad esempio, azioni, indici finanziari, valute, tassi d'interesse).Gli utilizzi principali degli strumenti derivati sono l'arbitraggio (ossia l'acquisto di un prodotto in un mercato e la sua vendita in un altro mercato), la speculazione e la strategia di copertura di un rischio finanziario (detta hedging).
In altre parole, i derivati sono pane per i denti degli speculatori finanziari. Si tratta di scommettere montagne di denaro su debiti contratti da privati come i mutui immobiliari (da cui la crisi dei “mutui subprime” del 2008) o sulla solvibilità del proprio debito da parte di uno stato o di un altro soggetto economico: se lo stato non è in grado di ripagare il suo debito, io possessore di titoli di quel soggetto, che attraverso un prodotto derivato particolare – il CDS, credit default swap – ho contratto una vera e propria assicurazione con un ente finanziario, non solo non ci perdo nulla ma addirittura ci guadagno una quantità di denaro ancora maggiore. Un sistema basato sul rischio e sul debito, naturalmente, non poteva durare in eterno e con la crisi del 2008 abbiamo assistito all’emergenza di un problema sistemico e strutturale del capitalismo contemporaneo, la cui unica soluzione logica porterebbe alla cessazione di questi “trucchetti” chiamati derivati e alla regolamentazione integrale dei mercati finanziari, abolendo i mercati over-the-counter (cioè deregolamentati, a uso e consumo di sciacalli e “creativi” nefasti). Ma è utopistico pensare che ai nostri “padroni” possa passare per il cervello una soluzione di questo tipo: meglio affondare con la nave, piuttosto che salire sulla scialuppa di salvataggio…
2.      Il problema ecologico e delle risorse. Secondo i sostenitori dello sviluppo sostenibile, attraverso l’uso delle fonti rinnovabili possiamo continuare ad avere sviluppo – cioè crescita economica – rinunciando ai combustibili fossili che, oltre ad essere non rinnovabili, stravolgono gli ecosistemi e comportano rischi elevati per la salute umana (su questi aspetti hanno pienamente ragione). Le rinnovabili – l’energia eolica, solare, geotermica, idroelettrica – però non possono, almeno allo stato attuale della ricerca tecnologica, garantire i tassi di crescita necessari al sistema per prosperare secondo le sue regole bicentenarie, che solo fonti energetiche a basso costo e dall’elevato rendimento come carbone e petrolio hanno potuto sostenere e far sviluppare nel corso dei decenni. Inoltre, come spiega Serge Latouche, il termine stesso sviluppo sostenibile è un ossimoro: " "Sviluppo sostenibile" è un impostura, un ossimoro come dire – una luce oscura –  dal momento che lo sviluppo , che l'unico sviluppo che noi conosciamo è quello che è sorto nella seconda metà del ‘700 in Inghilterra , dalla rivoluzione industriale e cioè una guerra economica contro gli uomini e degli uomini contro la natura. E' impossibile chiedere allo sviluppo di essere "sostenibile", è contro la sua stessa sostanza. Queste parole d'ordine retoriche invece di aprire la ricerca verso modi di vivere che siano rispettosi dell' ecologia ambientale mirano all'eternizzazione dello sviluppo, alla consacrazione del così detto "sviluppo durevole".
E questi sono i due filoni principali del problema: non abbiamo considerato l’annosa questione dello smaltimento dei rifiuti, la schiavitù psicologica dell’uomo contemporaneo verso il consumo di merci, né gli effetti nefasti della delocalizzazione della produzione industriale nei paesi del Terzo Mondo… Insomma ce n’è abbastanza per poter dire che i giochi sembrano proprio finiti. La crescita infinita è stata un’utopia che ci ha accompagnati per due secoli, fungendo da vero motore di tutte le rivoluzioni borghesi, e della modernità in senso più ampio. I nostri antenati vivevano in un sistema dominato dall’aristocrazia e dal clero, in un regime economico di sussistenza. Lo sviluppo impetuoso dell’influenza  della classe mercantile borghese, nel corso del diciottesimo secolo, ha permesso il trionfo degli ideali illuministici sul piano politico e civile e della teoria liberista di Adam Smith nel campo economico, ristrutturando alla radice la nostra civiltà. Siamo giunti ora alla fine di un ciclo, del quale è necessario conservare e anzi riaffermare gli aspetti positivi – il primato del diritto sui diritti individuali di casta o censo – ma abiurare risolutamente quelli negativi, che hanno permesso la costruzione di una società dissennatamente rivolta verso un’utopia irrealizzabile e, per imporla, ha posto l’economia al di sopra dell’interesse pubblico, della politica, e della comunità stessa.


1 http://www.youtube.com/watch?v=EQqDS9wGsxQ
[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Derivati

mercoledì 22 febbraio 2012

Ma la Decrescita è reazionaria?

La teoria della Decrescita, a forza di venir dibattuta in convegni, siti internet, articoli di riviste “alternative” e saggi cartacei, sta cominciando a far capolino anche nei media mainstream.
In Italia abbiamo assistito, a partire all’incirca dalla scorsa primavera, a un aumentato interesse nei confronti delle istanze decresciste, che ha portato anche all’apparizione del “vate” della Decrescita, Serge Latouche, in alcuni talk show molto seguiti a livello nazionale[1].
Come sempre accade, più una teoria viene dibattuta e conosciuta da un numero sempre maggiore di persone, più aumenta, purtroppo, la confusione, e non mancano le critiche cieche, dovute al cozzare violento tra la propria impostazione ideologica e la “novità” che questa impostazione si sente in diritto di contestare. Così non c’è da sorprendersi se la Decrescita si trova a fare i conti con critiche provenienti tanto dalla Destra liberista e mercantilista, quanto dalla Sinistra socialdemocratica e da quella neo (o post?) marxista.
La Decrescita, secondo tutte (o quasi) le campane della politica mainstream e di buona parte della sinistra radicale è – o sarebbe – un’ideologia “reazionaria”, che si oppone ciecamente al “progresso” sulla base più di un disagio esistenziale nel rapportarsi con la modernità che per una valutazione intellettuale ben ragionata e strutturata.
Gli ortodossi del marxismo non escludono poi che le idee di Latouche possano portare alla formazione di un inquietante, e pericolosissimo, “eco-rossobrunismo”, considerato che alcuni personaggi della Nuova Destra europea non hanno nascosto il proprio sostegno alla Decrescita (un caso su tutti, quello dell’intellettuale francese De Benoist).
Ma quindi è vero ciò che strillano liberali, socialisti e neo(post?)marxisti? La Decrescita è una pericolosa dottrina oscurantista, reazionaria, nemica del progresso in nome di una visione delirante dell’ambientalismo e soggetta a infiltrazioni fascistoidi?
Innanzitutto, facciamo chiarezza sul termine “reazionario”.Dopo la rivoluzione francese del 1789 e l’esperienza napoleonica conclusasi nel 1815, l’aggettivo “reazionario” ha dipinto tutte quelle forze, politiche ed intellettuali, fedeli al sistema di valori dell’Ancien Regime e sostenitrici della Restaurazione voluta dalla Santa Alleanza. L’assoluta negatività del termine “reazionario” fu riaffermata in seguito dalle formazioni socialiste e comuniste che con questo aggettivo intesero bollare il sistema di valori borghese affermatosi proprio dopo la caduta definitiva dell’Ancien Regime. Sono due secoli, quindi, che il termine “reazionario” identifica l’oscurantismo, la nostalgia dell’oppressione elitaria e il rifiuto aprioristico del progresso: una schifezza totale, insomma. Ma siamo sicuri che debba essere sempre e per forza così?
Ci sono alcuni punti della teoria decrescista che possono apparire reazionari, in quanto fanno riferimento al recupero di aspetti della vita sociale pre-moderna, seppur rivisitati in chiave contemporanea. Prendiamo ad esempio la  formazione di comunità autonome: una volta usciti dalla spirale della mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza, la società andrà riorganizzata sulla base di comunità autonome (o semi-autonome), cioè capaci di prodursi la propria energia (attraverso l’uso delle rinnovabili) e di dotarsi di una certa autonomia alimentare (orti urbani, alimenti a “chilometro zero” ecc.). Un punto cardine di questo discorso è legato allo “spirito del dono”, cioè all’obbligo di donare – e ricevere – beni da altri membri della comunità, attraverso uno scambio continuo che consolida i rapporti tra gli individui, e talvolta li crea dal nulla.
 Latouche porta l’esempio dell’Africa, dove lo “spirito del dono” è ancora ben  presente e ha un impatto sociale superiore a quella del mercato. Si tratterebbe, quindi, di recuperare alcune caratteristiche delle comunità pre-moderne (la sussistenza economica e la semi-autonomia alimentare), e di rimettere in discussione la leadership del mercato nei rapporti di scambio tra individui così come immaginata a partire da Adam Smith. Il mondo dominato dai grandi centri commerciali, immensi luoghi anonimi dove avvengono le transazioni mercantili senza alcun tipo di rapporto umano e sociale, trionfo della solitudine consumista, è l’incubo dal quale i decrescisti vogliono fuggire per RISCOPRIRE la convivialità, la bellezza del rapporto umano e dello spirito di condivisione dei beni. Si tratta, in parte, di tornare indietro di un paio di secoli, pur con gli opportuni aggiustamenti dati dall’evoluzione tecnologica e sociale.
Si può però dire che la Decrescita, pur contenendo, come abbiamo visto, elementi che la avvicinano alla Reazione (intesa come processo di recupero e riscoperta di usi antecedenti alle rivoluzioni borghesi), sia comunque un insegnamento sostanzialmente rivoluzionario: il fine ultimo della Decrescita non è certo la riaffermazione di un sistema di valori aristocratico e anti-popolare, bensì la trasformazione della società in un consesso di individui liberi, il cui immaginario comune è stato “decolonizzato” dal predominio dell’economia e dei mercati sulla politica e sulla vita sociale.
La Decrescita si richiama ai valori della democrazia diretta, che implica un impegno pressoché costante dei membri della comunità nella gestione della stessa: tutto il contrario, insomma, di una Reazione di stampo liberticida.
Liberazione dai dogmi economicisti e del consumismo, riscoperta della convivialità e gestione diretta del potere, inteso non come forma di soggiogazione dell’altro ma piuttosto di condivisione delle decisioni pubbliche e delle responsabilità sulla vita comune. Con buona pace degli irriducibili della modernità, che paradossalmente, appoggiando le tecnocrazie e i governi "tecnici", finiscono col legittimare una sorta di revival dell'Ancien Regime in salsa finanziaria.

giovedì 2 febbraio 2012

A sostegno dei fratelli greci, vittime delle tecnocrazia

Davanti a una mensa dei poveri. Tessalonica, settembre 2011.
La cronaca delle ultime settimane riporta notizie terribili provenienti dalla Grecia: aumentano i casi di abbandono di minori negli asili, nelle scuole e nelle chiese, extrema ratio di famiglie disperate, impoverite al punto di non poter garantire né un presente né tanto meno un futuro ai propri figli.
 Viene in mente, leggendo queste storie, il tempo lontano in cui i trovatelli e i figli di ragazze-madri venivano abbandonati davanti ai portoni delle chiese e dei conventi; nell'Italia meridionale questa triste usanza, molto radicata nei secoli passati, ha portato all'origine dei cognomi Esposto ed Esposito. Nell'Europa del "patto sociale", travolta dalla crisi della finanza cannibale, questo dramma indicibile sta tornando a galla, con tutto il suo carico di sofferenza e disperazione.
Sul sito www.camminandoscalzi.it si legge un articolo, a firma Giovanni Paci, in cui è riportata la testimonianza angosciante di una donna che ha dovuto abbandonare la propria figlioletta all'asilo, costretta dall'incapacità di poterle garantire una vita dignitosa. “Anna, la mamma non ti verrà a prendere stasera. Non ho più soldi. Scusa. La tua mamma”.
Questa frase non identifica un caso isolato ma, sempre più, l'attualità in un Paese che, dall'avvento del tecnocrate Papademos, è uscito dalle prime pagine dei network e delle testate mainstream, con una rapidità che lascia quanto meno perplessi, se si pensa alla frequenza con la quale i nostri probi cronisti ci riportavano le notizie di scioperi, manifestazioni e agitazioni varie nel corso dell'amministrazione Papandreou, "trombato" dopo aver osato annunciare la proposta di un referendum popolare sul piano di salvataggio (sic!) di UE e FMI
La verità, oscurata dai media mainstream, è che i nostri fratelli greci stanno letteralmente morendo di fame: un greco su quattro vive sotto la soglia di povertà, secondo un rilievo del dicembre 2011 dell'Istituto Nazionale di Statistica Elstat.
Ad Atene, secondo la direttrice del brefotrofio locale Maria Iliopoulou, il numero di chi fruisce delle mense allestite dalla Chiesa ortodossa è aumentato durante l'autunno di ventimila unità.
E sono stati registrati anche ben 200 casi di denutrizione infantile - impensabile in un Paese del "primo mondo" - per l'impossibilità dei genitori di sfamare i propri bimbi.
Tutto questo mentre gli europei, ipnotizzati dagli incantatori di serpenti della finanza e dei media mainstream, plaudono convinti alle politiche di austerità imposte dalla troika UE-FMI e biasimano il popolo greco delle "cicale", dei "cattivi risparmiatori e pessimi investitori", come se fosse una responsabilità di Anna, o degli ospiti del brefotrofio, o dei neonati denutriti, il collasso di un sistema assurdo basato sull'irrazionalità dell'accumulazione infinita di debito, sulla sua manipolazione artificiale, fittizia, che colpisce ora gli anelli più deboli della catena ma che è destinato a propagarsi anche nei nuclei del sistema, nei suoi gangli principali.
Ci hanno insegnato che l'ideologia è morta, che oggi governano la tecnica, la ragione, la scienza.
Non è vero niente: siamo nelle mani di un'ideologia terribile, molto più raffinata di quelle novecentesche, che si chiama Neoliberismo. I Monti, i Papademos, le Merkel e gli Obama sono i terminali "popolari" di un sistema governato a livelli più alti, dagli uffici dei palazzi d'acciaio e vetro di New York, della City di Londra e di tutte le altre "capitali" dei diversi capitalismi che formano l'architettura globale neoliberale. L'ideologia che si traveste da governo tecnico e imparziale: un po' come il Diavolo che, nel famoso detto, ha convinto gli esseri umani della sua inesistenza per raggirarli meglio.  Intanto, per sostenere indefinitamente il sistema del debito e dell'irrazionale "crescita infinita", impossibile in un mondo dalle risorse finite, i nostri fratelli greci muoiono di fame e abbandonano, disperati, i loro figli. E noi, ciechi, applaudiamo i loro aguzzini, che presto, se non reagiremo, saranno anche i nostri.
 Prima capiremo, tutti, di vivere in un sistema fondamentalista, prima riusciremo a svegliarci e a liberarcene, per costruire una società nuova basata sui valori reali, concreti, tanto dell'economia quanto dei rapporti umani.
Una società dove la politica vera, la democrazia vera, diretta, vicina al popolo e alle sue esigenze reali, capace di ascoltare e di decidere per la difesa del bene comune, abbia il sopravvento sul governo della deriva tecnofinanziaria e della sua fondamentale irrazionalità disumana.

giovedì 5 gennaio 2012

Un'idea diversa di Europa: Charles De Gaulle

Charles De Gaulle è stato uno dei personaggi più influenti dell'Europa di metà secolo scorso.
In prima linea nella lotta al nazifascismo, autore del famoso appello al popolo francese del 18 giugno 1940 in cui spronava alla resistenza contro l'occupante tedesco, fu negli anni '50 e '60 un protagonista di primo piano della scena politica francese ed europea, tanto amato e rispettato da alcuni quanto discusso, e spesso disprezzato, da altri, specie a sinistra (De Gaulle era un convinto anti-comunista).
Tralascio l'analisi del suo operato come presidente della repubblica francese e mi astengo dal commentare il suo anti-comunismo, in quanto si tratta di opinioni legate a un'epoca storica ormai lontana. Non è però lontana l'idea che aveva De Gaulle relativamente alla struttura e alla "missione" che avrebbe dovuto avere un'Europa finalmente in pace, integrata e democratica in un mondo che cambiava (e cambia ancor più oggi) a ritmi davvero elevati.
Questo post si avvale di un interessante articolo che ho pescato sul sito http://www.accademia19.it/, che cito per giustizia e completezza.
De Gaulle credeva nella integrazione economica con i partner europei, ma in un quadro politico in cui gli Stati nazionali avrebbero assunto più peso e responsabilità (“Non ci può essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi, sovrastrutture”).
In altre parole, De Gaulle era consapevole che creare d'incanto un'Europa federale sovranazionale, un'entità calata dall'alto insomma, era un progetto assurdo - un "mito", una sovrastruttura - mentre soltanto un'integrazione partecipata e democratica per mezzo dell'azione dei vari governi nazionali avrebbe portato alla formazione di un'entità-Europa stabile, accettata da tutti e davvero indipendente, cosa che oggi non è, in quanto l'UE ha assunto la forma di un governo-ombra di tecnici, burocrati ed economisti.
 Una costante della sua azione politica fu la creazione di un asse franco-tedesco. In segreto, tuttavia, tentò di pervenire ad un accordo con gli USA e la GB per istituire un “direttorio franco-anglo-americano” alla guida dell’Alleanza Atlantica.  Londra e Washington respinsero la proposta.
Il “no” anglo-americano spronò De Gaulle ad elaborare un disegno politico in cui l’Europa si poneva come “terza forza” fra USA ed URSS; questo sarà uno degli orientamenti di fondo della sua politica. Ed in questo quadro, doveva essere accentuata la leadership francese.
Il tentativo di De Gaulle di formare un "direttorio" franco-anglo-americano va chiaramente inquadrato nel contesto geopolitico dell'epoca. Da una parte c'erano le tre potenze occidentali vincitrici del secondo conflitto mondiale, dall'altra il blocco sovietico che turbava il sonno delle democrazie liberali. La Germania, all'epoca, tornava al ruolo di potenza economica ma era divisa e, politicamente parlando, poco più di un protettorato degli anglo-americani ad Ovest e dei sovietici a Est. Tuttavia, De Gaulle considerava l'asse franco-tedesco fondamentale per lo sviluppo della "nuova" Europa, in quanto prosecutore ideale del progetto carolingio che aveva unificato il continente, seppur per breve tempo, nel Medioevo. L'idea di un direttorio franco-tedesco è tornata d'attualità negli ultimi mesi con la stretta alleanza Merkel-Sarkozy che detta legge in ambito europeo per contrastare la crisi. Personalmente lo ritengo il punto debole del ragionamento di De Gaulle: non si può volere contemporaneamente un'Europa di stati-nazione dotati di pari dignità e pari potere decisionale, e un asse al suo interno che svolge il ruolo di guida. O l'uno o l'altro, non c'è soluzione di compromesso.
Ciò che intriga, del ragionamento di De Gaulle, è la formazione di un'Europa "terza forza", indipendente da entrambi i blocchi della sua epoca. Oggi, che di superpotenze militari ne è rimasta solo una, l'Europa ha bisogno comunque di affrancarsi dall'alleanza atlantica e di formare una propria forza autonoma, garante della sicurezza e della pace del continente.
Se De Gaulle fosse in vita, sicuramente si opporrebbe al progetto di "scudo spaziale" e alla persistente presenza di innumerevoli basi americane sul suolo europeo: caduto il pretesto della difesa dai "cattivoni" sovietici, l'Europa non ha più alcun bisogno di essere protetta da nemici che non esistono. Anzi, con la Russia va avviato un sostanziale avvicinamento considerato che gli interessi del blocco europeo e dei russi sono per molti versi comuni, o comunque affini; aspetto questo che De Gaulle, pur auspicando la fine del regime sovietico, aveva già evidenziato negli anni ’60 parlando di un’Europa estesa da Lisbona agli Urali.
E' interessante poi leggere la proposta che fece il governo De Gaulle ai partner europei attraverso la commissione Fouchet cinquant'anni fa, tra il 1961 e il 1962, per dare una struttura democratica e condivisa alle nascenti istituzioni europee. Leggiamola:
1.        un Consiglio dei Ministri, composto dai Capi di Stato e di Governo ovvero dai Ministri degli Esteri, che si sarebbe riunito ogni 4 mesi. Esso sarebbe stato il vero organo decisionale, con deliberazioni adottate all’unanimità;
2.       Assemblea parlamentare, con facoltà di proporre raccomandazioni ed interrogazioni anche al Consiglio dei Ministri;
3.        la Commissione politica, composta da alti funzionari dell’amministrazione degli affari
esteri di ciascun Stato membro, incaricata di assistere il Consiglio, di preparare e di
dare esecuzione alle sue decisioni;
Il principio ispiratore era quello della cooperazione fra Stati sovrani (e quindi più vicino ad un approccio confederale). Dopo due mesi, però fu elaborato il piano “Fouchet 2” che, rispetto a quello precedente, segnava un deciso passo indietro poiché ometteva i riferimenti alle strutture previste dai Trattati di Roma ed all’Alleanza Atlantica. Inoltre l’Assemblea comunitaria aveva poteri più ridotti. Infine, fu eliminata la prospettiva di un sistema di votazione a maggioranza.
In pratica esso era poco più che un “Patto di consultazione”. Gli altri Paesi non accettarono e dopo altri tentativi di compromessi, nell’aprile del ’62 il documento fu definitivamente abbandonato.
Il piano Fouchet 2, considerato troppo restrittivo, fece saltare l'accordo; tuttavia, nel complesso, si tratta di un piano che avrebbe dato all'Europa una struttura politica  più democratica di quanto non avvenga al giorno d'oggi, in quanto dallo schema di trattato si profilava un’unione tipicamente confederale, nella quale la Commissione - indipendente dagli Stati e responsabile di fronte al Parlamento – avrebbe lasciato posto a un organo intergovernativo, affiancato da un’Assemblea ridotta a un ruolo puramente consultivo. 
In estrema sintesi, scremando dalla visione gollista le concezioni legate a doppio filo alla situazione geopolitica della sua epoca - la Guerra Fredda e l'egemonia americana nella politica europea - possiamo, a cinquant'anni di distanza, riprendere quanto di buono e interessante l'idea gollista di Europa delle Patrie proponeva:
- una confederazione in cui veniva rispettata la sovranità e l'autonomia decisionale degli stati membri;
- il rifiuto del principio sovranazionale, di per sé antidemocratico, e l'affermazione invece del principio internazionale (il Consiglio dei Ministri come organo di maggiore importanza delle istituzioni europee);
- uscita dei paesi europei dalla NATO e formazione di un'alleanza militare continentale indipendente.
Su queste basi, è ancora oggi possibile ricostruire un'idea di Europa oggi svilita dal vassallaggio nei confronti della finanza internazionale e dei mercati; resta da capire quanto margine ci sia per farlo all’interno dell’Europa attuale, dominata dalla Commissione e da una visione prettamente mercantilista.

lunedì 2 gennaio 2012

Perchè questo blog



Questo blog nasce da alcune semplici constatazioni. La prima salta agli occhi appena si sfoglia un qualsiasi quotidiano: l'Europa come l'abbiamo conosciuta finora - ossia un aggregato di Stati che hanno ceduto buona parte della propria sovranità  a un'organizzazione sovranazionale - rischia di essere fatta a pezzi da una crisi finanziaria i cui effetti tutti riescono a vedere, ma che pochi riescono a comprendere.
L'economia voodoo dei prodotti finanziari "creativi", dei mutui subprime, dell'accumulo mostruoso di debito, sta cannibalizzando con l'avvitamento della sua crisi l'Europa unita nata sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e tenuta insieme dalla fede assoluta nei precetti del neoliberismo.
La seconda constatazione è che, alla fine della fiera, se l'Europa per avere diversi decenni di pace ha dovuto vendersi ai dogmi del mercato, è perchè inconsciamente disprezza sè stessa, la sua natura culturale e civile.
I disastri della WWII (d'ora in avanti, riferendomi a questo evento storico, userò per comodità l'abbreviazione inglese, che ci volete fare, sò pigro) hanno  condotto l'Europa occidentale a una forma di automortificazione - spesso inconscia ed implicita - che  ha notevolmente ridimensionato la sua autostima, giunta probabilmente ai minimi storici nel corso degli ultimi 60 anni. 
L'Europa orientale dal canto suo ha vissuto, dopo gli sfaceli terribili dell'occupazione nazista e dei regimi di estrema destra ad essa collegati, quarantacinque anni di, molto presunto, "socialismo reale", in cui ne sono successe di tutti i colori: dalla formazione di neosignorie ai limiti del paradossale (si pensi a Nicolae Ceausescu) alle insurrezioni d'Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), passando per la clamorosa suddivisione della città di Berlino attraverso il celeberrimo Muro (1961-1989), l'antifaschistischer Schutzwall (barriera antifascista) secondo la propaganda della Repubblica Democratica Tedesca.
L'Europa fu il teatro principale della Guerra Fredda, che oggi ricordiamo quasi bonariamente (soprattutto chi, come me, è troppo giovane per averla vissuta in prima persona), ma che conobbe momenti di tensione spaventosi e contribuì a creare un solco ancora più marcato tra le due metà dell'Europa, quella dell'Ovest preda dei sensi di colpa  e quella dell'Est col pugno chiuso.
Tra il 1989 e il 1991 tutto finì, come per magia, e restò soltanto un immenso, comune senso di colpa e di nostalgia indefinita. A Est esso fu somatizzato con la svendita della propria dignità al nuovo padrone americano. Poi Maastricht, l'introduzione dell'euro, il neoliberismo interpretato come la panacea, la cura di tutti i mali per l'Europa vecchia e dal cuore stanco.
Poi ancora, la crisi, il neoliberismo che mostra il fianco, il capitalismo che traballa, l'avidità dei mercati, la tecnocrazia al potere - per metterci una pezza - in Italia e in Grecia che, per un triste paradosso, sono le patrie della cività classica e dell'Europa più autentica, lontana dai mercanteggi della finanza moderna.
Qui nasce la terza considerazione: l'Europa è un'entità che ha tremila anni di storia. Anno più, anno meno.
Ha visto nascere e cadere imperi, ha sopportato invasioni e si è reinventata centinaia di volte costruendo una civiltà multiforme, sfaccettata e raffinatissima. L'Europa ospita nazioni che, nel corso della storia, hanno dato i natali a individui dotati di genio assoluto nelle arti, nelle scienze, nella politica e in ogni altro campo del sapere e del vivere comune. L'Europa ha creato un modello di civiltà che ha sempre avuto il pregio di sapersi rinnovare e modificare, anche radicalmente, a seconda del cambiamento delle esigenze comuni.
Il potenziale che ha il Vecchio Mondo - come lo chiamano coloro che più ci guadagnano dal senso di colpa eterno che incombe sugli europei - è tale da rendere del tutto superflua la stessa crisi, che non ha identità, non ha volto, non ha radici. L'Europa - o meglio il coacervo delle tante nazioni che la compongono - invece queste radici le ha. E sono belle forti. Deve solo trovare il coraggio di guardarsi allo specchio e capire che non è più tempo di affidare agli altri - ai drogati del business, alla mercatocrazia, agli oligarchi - il suo futuro e quello dei suoi figli.
Di questo parleremo in questo blog, con la speranza di raccogliere tanti interventi di persone che non ci stanno a farsi succhiare via l'anima da un manipolo di farabutti senza dignità. Ma parleremo anche dell'Europa di tutti i giorni: di quella culturale, artistica e sociale. Non ci faremo scappare nulla o, almeno, ci proveremo.