venerdì 28 settembre 2012

Liberalismo atto finale







Il mondo contemporaneo è dominato da una sola ideologia (con le sue varie ramificazioni interne): il Liberalismo. Già trionfatore nella seconda metà del XIX secolo nella sua lotta ultradecennale contro l’assolutismo monarchico, si è imposto a fine ‘900 anche contro il Comunismo (triennio 1989-’91, crollo del “socialismo reale” nell’Europa dell’Est e sfaldamento dell’URSS) e, vista la penuria di rivali attendibili, ha portato alcuni a considerare la Storia ormai finita, “ammazzata” bonariamente dal Liberalismo e dalle sue strutture. In verità il Liberalismo, di cui vanno sottolineati i meriti nell’aver emancipato l’uomo dalle rigide gerarchie alle quali era costretto nella società organica, mostra criticità notevoli in ogni settore del vivere umano: società, economia, ambiente, politica. L’attuale profondissima crisi economica globale, con il suo strascico di miserie umane assortite, sta rimettendo in discussione tutti i cardini dell’ideologia dominante, rendendo il futuro un posto molto meno scontato, almeno ideologicamente parlando, di quanto si potesse prevedere fino a pochi anni fa. Cercheremo di fare una sintesi per sommi capi delle varie criticità.
1)      Ambiente. Liberalismo fa rima con Industrializzazione: man mano che cresceva la ricchezza e l’influenza sociale della borghesia imprenditoriale (e commerciale) ottocentesca, cresceva anche il potere delle “fazioni” politiche liberali. Le rivoluzioni borghesi di metà ‘800 che uccisero  la Restaurazione post-napoleonica dell’Ancien Regime, probabilmente non avrebbero mai avuto successo se a monte non ci fosse stata una classe sociale la cui influenza rivaleggiava ormai con quella dell’eterna aristocrazia europea. Il processo di industrializzazione, come tutti sanno, non ha avuto un costo insignificante per gli equilibri ambientali. L’utilizzo massiccio di combustibili fossili, la mancanza, per molti decenni, di regole certe sui limiti di emissioni ed immissioni, il progresso della chimica industriale con la produzione di nuovi composti molto utili al “progresso” ma disastrosi se rilasciati nell’ambiente naturale, la pesca in quantità mai viste di specie ittiche e la fertilizzazione dei campi con sostanze chimiche che hanno devastato gli equilibri della terra coltivabile, sono fenomeni sotto gli occhi di tutti. E’ stato – ed è tuttora, specie in molte aree del Pianeta – il prezzo da pagare per lo sviluppo di una forte economia industriale. Ma oggi ci ritroviamo con sempre meno aree destinabili a un’agricoltura estensiva, con molte specie ittiche un tempo abbondanti ridotte quasi all’estinzione nel giro di due secoli, e con una presenza inquietante di sostanze inquinanti e potenzialmente nocive per l’uomo nell’aria e nell’ambiente. Se a ciò uniamo i disastri che accadono periodicamente – esplosioni di centrali nucleari, incidenti sulle piattaforme petrolifere o sulle navi petroliere – ci rendiamo conto immediatamente, anche senza statistiche o rapporti, che il conto presentato dall’economia moderna al nostro Pianeta è davvero tanto, troppo salato per non lasciare strascichi dalle potenzialità devastanti per la vita dell’uomo e delle altre specie nei secoli a venire.
2)      Società. Il Liberalismo, figlio primogenito dell’Illuminismo (il suo fratellino minore, nel senso di più giovane, è il Socialismo d’ispirazione marxista), si è subito contraddistinto per la lotta allo status quo nella società europea del XIX secolo, che vedeva una rigida suddivisione gerarchica in base al “sangue”, ossia al fatto di nascere in un determinato contesto sociale. Una gerarchizzazione dei rapporti sociali era davvero insopportabile per la rampante borghesia ottocentesca, che a suon di rivoluzioni e di lotte politico-culturali intensissime riuscì a cestinare la cosiddetta società organica a vantaggio della società liberale, in cui tutti – almeno sulla carta – nascevano liberi e uguali nei diritti e nei doveri di fronte alla legge. Alla legge, e non alla comunità come accadeva per consuetudine nella società organica: il diritto infatti sostituiva i rapporti “tradizionali” e legava i soggetti a rispettare determinate regole, condizione fatta salva la quale erano liberi di agire come meglio credevano per realizzare le proprie aspirazioni. Questo principio è ancora del tutto valido nel mondo contemporaneo e rappresenta, con ogni probabilità, il maggior e miglior risultato ottenuto dai “vecchi” liberali. Tuttavia, i liberali di ultima generazione non considerano ancora concluso questo processo e continuano a battersi contro ogni tipo di vincolo comunitario e di entità tradizionale presenti nel mondo. Nel calderone dei nemici “reazionari” hanno un ruolo di primo piano  le Nazioni, considerate dei residuati del passato alla pari delle grandi religioni organizzate, secondo grande nemico. La famiglia, naturalmente, è un altro soggetto sociale nel mirino degli ultraliberali, che la considerano un luogo di sopraffazione e soffocamento delle aspirazioni individuali e la contrastano in ogni modo. Ciò che questi fanatici non comprendono, è che la demolizione del retroterra culturale ed affettivo degli individui non li rende soggetti liberi e indipendenti, bensì degli sradicati resi fragili dall’assenza di legami profondi (e, si badi bene, non lo sta scrivendo un “papa boy”… anzi). L’uomo è un animale sociale che necessita di rapporti intensi e continui con i suoi simili. E’ impensabile che ciò possa regolamentarsi soltanto attraverso la freddezza dei codici civili e penali: è nella natura umana la ricerca di relazioni profonde con altri esseri con i quali trovare quell’empatia e complicità che permette all’essere umano di sentirsi parte di un contesto più grande, nel quale muoversi a pieno titolo. L’attuale sfaldamento dei rapporti sociali più profondi e sinceri, con tutto lo strascico di drammi personali e comunitari ai quali assistiamo quotidianamente – abuso di droga ed alcool, omicidi e violenze in famiglia, abbandono scolastico e criminalità giovanile – sono in diretta proporzione con la mentalità ultraliberale di “taglio” delle radici comunitarie.
3)      Politica. Il grande storico Eric Hobsbawm[1] sosteneva che la democrazia parlamentare – pilastro del Liberalismo politico – si regge fintanto che vengono verificate quattro condizioni di natura politica, economica e sociale. Una di queste è la stabilità del sistema economico: nel momento in cui la pancia dei cittadini comincia a borbottare, la democrazia parlamentare si mette a traballare, sotto la spinta dei dubbi popolari sulla sua reale efficacia. In effetti, il sistema liberaldemocratico non è certo un modello esemplare di rappresentanza: i partiti si fanno carico, almeno sulla carta, delle istanze popolari, ma nei fatti si dimostrano spesso e volentieri dei centri di potere a beneficio dei loro membri, come dimostrano i sempre più numerosi scandali che scoppiano qua e là nel mondo occidentale (si pensi ai casi recenti, tutti italiani, dello scandalo gestione fondi della Margherita, della Lega Nord e del PDL Lazio). Le farraginose attività parlamentari, poi, vengono percepite come lontane dalla volontà popolare, e cresce il numero di chi vede nella democrazia rappresentativa un modo scaltro di nascondere la supremazia delle grandi lobby sugli elettori. Negli USA, che non hanno mai conosciuto un sistema politico differente da quello liberaldemocratico, la maggioranza degli aventi diritto al voto è sfiduciata dal modello bipartitico (ormai dominante anche in gran parte del mondo), che premia due partiti finanziati dalle multinazionali e dalle banche d’affari la cui distanza dalle vere esigenze popolari è sempre stata piuttosto ampia, con “picchi” raggiunti negli ultimi quarant’anni (si pensi alle amministrazioni Nixon, Raegan e Bush jr., ma anche al salvataggio delle banche compiuto dal democratico  Obama nel 2008). In Europa, la rappresentanza popolare non garantisce la piena sovranità: gran parte delle leggi in discussione nei Parlamenti nazionali è in realtà elaborata sotto forma di direttiva in ambito comunitario, dove svolge un ruolo determinante la Commissione, organo non eletto composto da burocrati e politici “dismessi”. Anche in questo caso, monta la sfiducia popolare nei confronti delle istituzioni “democratiche”.
       4) Economia. Dallo scoppio della prima fase della crisi sistemica (crisi dei mutui subprime negli USA, 2007/08), in tanti abbiamo dovuto ingegnarci a studiare economia a tempo perso. Lo scoppio della crisi del debito in Europa, palesatosi dapprima in Grecia e poi in Spagna e Portogallo (tutti Paesi membri del poco invidiabile club dei PIIGS, con Italia e Irlanda), ha spostato drammaticamente termini e caratteristiche della crisi nel Vecchio Continente, con l’Euro stesso a serio rischio di collasso per la manifestazione drammatica delle sue contraddizioni intrinseche (l’Euro mette assieme Paesi con bilancia commerciale attiva, come la Germania, con altri a bilancia negativa, vedi proprio i PIIGS, perlopiù indebitati proprio con l’apparato economico tedesco). Siamo giunti alla fine dell’economia liberale? Dipende. Intanto, l’economia liberale ha tante scuole: c’è quella anglosassone, che è poi la scuola liberista classica (poco Stato, tanto mercato), c’è quella renano-scandinava, che prevede maggior presenza pubblica, c’è quella italiana che è influenzata dalla dottrina sociale della Chiesa, ecc. 
Dopo la fine dell’Impero Sovietico, caratteristiche tipiche del liberismo anglosassone sono entrate nella vita quotidiana dei lavoratori di molte altre aree (in Europa attraverso l’UE), si pensi a termini come “flessibilità” e “mobilità” riguardo la politica del lavoro. La finanza ha poi livellato molte differenze – che ora però riemergono, si pensi al conflitto “ideologico” tra capitalismo tedesco e anglosassone nell’affrontare la crisi – imponendosi come sistema principale per “fare soldi”. Oggi viviamo in una fase di grande incertezza, che può portare a una riaffermazione del liberismo come alla sua morte. Ciò che è chiaro, è che l’attuale crisi economica globale porterà a un finale traumatico in cui qualcuno uscirà necessariamente con le ossa rotte: un successo del liberismo, imposto dall’alto attraverso una Commissione europea potenziata che impone “misure speciali” agli Stati membri, sarebbe la sconfessione dei principi liberali socio-politici che hanno fatto accettare il sistema a centinaia di  milioni di persone nel corso dei decenni. Una diffusa rivolta popolare contro le misure “anti-crisi”, dal canto suo, potrebbe portare tanto a un regime democratico non liberale (democrazia diretta, proletaria o quant’altro) quanto a una riemersione di regimi totalitari para-fascisti (magari attraverso un colpo di stato militare). In ogni caso, per il Liberalismo come l’abbiamo conosciuto finora, saranno tempi grami.


[1] “Il secolo breve 1914-1991”, Eric J. Hobsbawm, ed. BUR